Ansia e dintorni

Stamattina, tra le news di Tiscali, ho letto che Daria Bignardi sta pubblicando un libro con un titolo del tipo "Storia della mia ansia", che pare non sia esattamente autobiografico (visto che il protagonista è un musicista) ma che probabilmente lo è.
Non che la Bignardi mi interessi granché, l'ho seguita sporadicamente ne "Le invasioni barbariche" e ho letto quanto si dice di lei in qualità di direttore di RAI 3, niente di più.
Però il titolo del libro ha attirato la mia attenzione, subito, come sempre accade quando si scopre una comunanza di tratti problematici, come se la condivisione potesse consolare o, ancora meglio, suggerire soluzioni.
Non credo che leggerò quel libro, non ne ho mai letto sull'argomento. Ma l'argomento, certo, mi appartiene, nel senso che è parte integrante e invadente del mio vissuto, della mia persona.
L'ansia, quale compagna più scomoda e antipatica!? 
Certo, la malattia fisica, il dolore, la solitudine, forse quelle sono più scomode e antipatiche, ma al momento è lei a farla da padrone e perciò lei soltanto posso cercare di capire e controllare.
Ed ecco che ho usato la parola chiave, "controllare".
Il CONTROLLO è forse il mio problema più grande, inteso come esigenza di controllare tutto, di sentirmi sicura, di sapere al sicuro anche le persone che amo.
Io non so vivere l'oggi senza pensare al domani, io non so lasciarmi andare completamente (se non sotto l'effetto dell'alcol...e anche in quel caso non si può dire che la mia coscienza vada proprio in stand by), io non improvviso, quasi mai almeno.
A dirla così verrebbe da dire "E che palle, che noia! Che tristezza!", ma le cose sono un po' più complesse di così.
Credo che la mia ansia sia matura quasi quanto me, se non c'era alla nascita sicuramente mi ha raggiunto che ero ancora bambina, perché c'era già al momento in cui faccio risalire i miei primi ricordi. E parliamo dei miei 5 anni, del periodo immediatamente precedente all'inserimento scolastico.
Bambina non certo vivace, ero timida, riservata, spontanea solo in assenza di adulti e/o di sconosciuti. Anche nelle fotografie dell'epoca difficilmente mi si vede sorridente, sembro sempre impaurita, incerta. E non faccio fatica ad individuarne i motivi.
Ogni persona ha dei tratti caratteriali che sono innati, lo dicono gli studiosi della materia, ma poi ci sono tutti quegli aspetti che si formano, crescono, si definiscono sempre meglio, assolutamente condizionati da elementi dell'ambiente esterno, che vanno a fondersi in una personalità precisa e difficilmente modificabile nel tempo.
E quegli elementi so bene quali sono stati: un padre controllante, giovane, impreparato, convinto di sapere sempre quali comportamenti e situazioni potessero essere considerati adeguati per la sua prima figlia e la sua bella moglie. Entrambe dovevano essere carine e cordiali con tutti ma non troppo, sorridenti ma non troppo, curate e ben vestite ma non troppo, comunicative ma non troppo. Lo specchio del suo sogno di famigliola felice, quella che lui non aveva avuto. Una famigliola in cui ciascuno recitasse il suo ruolo, di mamma, moglie, figlia perfetta, mentre lui recitava malamente il suo di padre e marito attento e presente.
Lui non era presente, lui pensava al lavoro, al TG, al giornale da leggere; e pensava che quella vita fatta di formalità (come l'andare in chiesa la domenica e vestirsi dignitosamente) e priva di veri rapporti umani per entrambe le sue donne, dovesse bastare e farci sentire fortunate e soddisfatte.
Geloso ed eccessivamente protettivo nei confronti di moglie e figlia, ci soffocava, ci impediva ogni slancio affettivo, inibiva sul nascere ogni possibile amicizia, ci colpevolizzava se eravamo troppo espansive o socievoli. E non lo eravamo quasi mai.
A casa non si usava essere troppo affettuosi o espansivi, non ricordo neanche da parte di mamma particolari momenti di coccole e carezze; saranno sbiaditi i ricordi, del resto sono una smemorata, ma sono certa che tutto il contatto fisico, la tenerezza, la complicità che io e Marco viviamo con nostro figlio, in casa dei miei non ci sono mai stati.
Mio padre aveva certamente difficoltà ad esprimere i suoi sentimenti, di sicuro convinto che non rientrasse nel suo ruolo di uomo forte e di "capo famiglia" responsabile.
Lui non ha mai ricevuto una carezza dai suoi genitori, che lo amavano, lo so, ma non avevano tempo né capacità di esprimere il loro affetto.
Altri tempi. I loro e anche i nostri.
Mamma, che non lavorava (perché lui aveva preteso fosse così) era sempre in balia dei suoi umori e dei ricatti, del continuo sottolineare la sua dipendenza economica e sociale.
E ad ogni litigio volavano paroloni e spuntavano valigie riempite in fretta e furia per poi essere disfatte mezz'ora dopo fra scuse e pentimenti da una parte e dall'altra.
Per poi ricominciare tutto da capo.
Poi sono arrivati gli altri figli ma la situazione non è cambiata di molto.
Io ero sempre più taciturna e, nel profondo, sognavo che quelle valigie ci sarebbero davvero servite un giorno o l'altro, sognavo che lei trovasse il coraggio di andare via, che provasse la stessa rabbia che provavo io.
Ma non è mai successo.
Siamo sempre rimasti, che delusione, ogni volta!
Quelle scenate giovanili sono andate scemando pian piano, tra loro si è raggiunto un equilibrio e, man mano che noi crescevamo, una nuova visione della coppia, dei ruoli, della donna si è fatta strada fino a casa nostra.
Ci sarebbe da dire molto in proposito ma qui dirò soltanto che ora mia madre vive il suo ruolo di donna, madre e moglie molto più liberamente, con maggiore riconoscimento del suo impegno e del suo lavoro (che quello in casa di certo lo è) e con maggiore forza nel pretendere rispetto.
Credo si amassero e forse si amano ancora, quindi va bene così, sono rimasti insieme, forse non avrebbero saputo vivere diversamente.
In ogni caso nella mia infanzia il loro rapporto e il senso di precarietà che mi trasmetteva, hanno sicuramente plasmato le mie insicurezze, le mie ansie e soprattutto la mia voglia di riscatto.
E hanno fatto di me una che cercava vie di fuga in ogni occasione utile, una che ha imparato a mentire e a nascondersi per fare ciò che voleva, una che sapeva divertirsi, ridere, lasciarsi andare con amici e compagni (di scuola e di gioco) per poi tornare a fare la musona pensierosa e malinconica in casa.
Ho passato l'infanzia a sognare, a immaginare una vita diversa, ed ho continuato, sempre, in ogni momento, a scuola, per strada, sull'autobus, in bagno...sempre sogni ad occhi aperti, una storia infinita in cui la protagonista era sicuramente più scaltra e affascinante di me.
Non ho mai smesso di sognare, io ho bisogno di sognare, che si tratti di sogni più o meno realizzabili o di pure fantasie lontane anni luce dalla realtà, in cui posso essere mille diverse Laura, anzi, stessa Laura, mille vite, mille amori, mille lavori.
E insieme al sogno mi sono tenuta l'ansia, la stessa di quando tremavo all'idea di essere interrogata, a scuola o in qualunque situazione "sociale" che mi avrebbe vista costretta a parlare, a casa con mio padre, al quale non sapevo mai che dire senza sbagliare...
Tutto è cambiato, molte cose sono superate, ma l'ansia è sempre qui, con me, in me.
Come dice la mia terapeuta "la mia ansia è espressione del bisogno di controllare tutto", persone, vissuti, situazioni. Credo sia la mia risposta all'essermi sentita fortemente controllata in passato, in balia di qualcuno e degli eventi.
Ora voglio essere io a gestire e controllare, a programmare e realizzare  il mio sogno di vita.
E quando non funziona rischio di crollare.
Ma ancora sono in piedi, vado avanti, guardo avanti. Sono viva. Sono forte.
E sono ansiosa.
 
 
 

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