La mia nonna triste

Oggi pensavo a te, non so, forse ti ho sognata, succede a volte, anche dopo tanti anni.
Una vita lunga la tua, 92 anni vissuti lentamente, scanditi dalle malattie e dalle morti dei tuoi cari e delle altre persone che ti stavano accanto. 92 anni tutti da raccontare, lucidi nei ricordi che, senza nostalgia ma con piacere, condividevi con me o con chiunque avesse voglia di ascoltare. E' che non erano in tanti ad ascoltare, quindi credo piacesse a te quanto a me stare lì, davanti al camino, che ci fosse il fuoco acceso o no, a parlare per ore, a sussurrare, che pure il tuo tono di voce era rassegnato e stanco.
A volte devo confessare che mi costava stare lì mentre la mia giovinezza istintivamente mi ricordava che fuori c'erano amici, amori, cose da fare e che gli altri avrebbero fatto senza di me! Avevo la mia vita abbozzata da portare avanti, da gustare e da sprecare anche un po'.
Ma la maggior parte delle volte era un vero piacere starti a sentire, condurti pian piano, domandando e commentando solo un po', in quell'intrico di storie, tue o di persone che avevi conosciuto o anche storie che avevi solo sentito raccontare ma che ricordavi in ogni particolare, perché ormai ti appartenevano.
Stavi china, con la tua giacchina nera e in tasca un fazzoletto per asciugare le lacrime che scendevano, per l'età e non per l'emozione... 
Di solito tenevi il fazzoletto nero sulla testa ma se faceva caldo  potevo vedere i tuoi lunghi e lisci capelli grigio-bianchi raccolti in una crocchia ormai ridotta a poco, fermata con qualche forcina o con il pettinino. Eri tutta vestita di nero, forse dalla morte di nonno, o forse da quella precedente di tuo figlio. Eri vestita di nero perché in paese ci si aspettava che lo facessi, o forse tutto sommato non ci avrebbero poi fatto caso, eri tu quella si condannava al lutto perché non avresti potuto fare diversamente. La trasgressione non rientrava tra le cose per te accettabili. Eppure sono quasi certa che dopo la morte di nonno sia in realtà iniziata per te una nuova vita, sempre dimessa e silenziosa, ma di sicuro un po' più serena e aperta alla curiosità.

Ci sono voluti anni ma ricordo che pian piano hai cominciato ad assaggiare cibi nuovi, cosa eccezionale per te che, nata povera, eri incredibilmente schizzinosa! Guardavi nuovi programmi in TV, per poi dire che non ti piacevano né ti interessavano, gestivi con parsimonia ma con piacere quei pochi soldi che facevano la tua indipendenza economica. Questa era tutta la libertà che ti concedevi, ma io lo so che era già tanto, che era qualcosa di nuovo, che ti sorprendeva e ti restituiva il piacere di vivere.
E anche raccontare di te era qualcosa che non avevi mai fatto prima, non si poteva, del resto persino allora, a sostituire nonno, ci si metteva mio padre, tuo figlio, a mettere in dubbio la veridicità di certi racconti, di episodi troppo amari per poterli accettare.
Ma di solito stavamo sole, con le seggiole basse una accanto all'altra, e a volte ti tenevo la mano. Ti piaceva essere accarezzata, anche se non sapevi dirlo. Ti piaceva quando ti sistemavo le unghie e, fingendo che fossi io a costringerti, ti lasciavi stendere un velo di smalto trasparente! Niente di più, ma sapevo quanto potesse valere per te quello sgarro alle regole della sobrietà. E abbozzavi un sorriso, come una bambina, perché ridere davvero era un'altra di quelle attività che ti sono rimaste estranee fino alla fine; quando ti sfuggiva un risolino lo soffocavi e nascondevi la bocca con una mano.
E intanto raccontavi, a volte non c'era proprio bisogno di chiedere, i ricordi si susseguivano, spontanei, con parole semplici e con abbondanza di dettagli, come se le immagini fossero ancora lì, davanti ai tuoi occhi di vecchia.
E tornavi ad essere quella bambina un po' introversa e solitaria che andava alla scuola elementare nel vecchio edificio vicino a casa, curiosa e avida di nuove conoscenze e nozioni. Ti piaceva la tua maestra, era gentile e veniva da un'altra regione. Lei ti apprezzava, ti stimolava e incoraggiava.
Eri brava, apprendevi in fretta e ne andavi orgogliosa. Ricordavi ancora tutte le cose che ti aveva insegnato o che avevi letto in quell'unico libro di cui disponevi. Erano solo nozioni, sprazzi di storia e geografia, poesie, qualche racconto. Ma ne conservavi un ricordo affettuoso, come si fa con le cose preziose, penso addirittura che ogni tanto ripassassi tutto mentalmente per non permettere a quelle poche conoscenze di svanire. Era il tuo piccolo bagaglio di cultura, molto piccolo, visto che ben preso, forse quando eri in terza, i tuoi genitori presero per te una decisione che ti ha segnata per sempre.
Nonostante la maestra si fosse persino presentata a casa a implorare tuo padre di lasciarti frequentare la scuola, decisero che non si poteva più, che la piccola Beatrice doveva stare a casa ad occuparsi dei suoi genitori, che intanto si erano ammalati, non si sa bene di cosa, e non erano più autosufficienti. Tutti i tuoi sogni morirono quel giorno. Non dicesti una parola, come sempre, forse per la prima volta, cominciasti a pensare di essere condannata a un destino crudele, di essere l'agnello sacrificale, mentre le tue sorelle maggiori prendevano altre strade, a dirla tutta non molto più vantaggiose della tua, e tu iniziavi a invidiarle e, forse, a provare risentimento nei loro confronti.
Eri solo una bambina, e sei sempre rimasta convinta che andare a scuola ti avrebbe dato un destino diverso, che saresti sempre stata brava e diligente, una piccola studiosa di cui i tuoi avrebbero dovuto essere orgogliosi! Ma è andata così, la piccola Beatrice ha cominciato a maledire se stessa e la vita e si è dedicata a compiti e responsabilità che sarebbero stati pesanti anche per un adulto.
Nel giro di poco tuo padre era bloccato su un letto, con le gambe gonfie e doloranti, affetto da una malattia indefinita che allora veniva semplicemente chiamata "Quel male". Poi la tua mamma...e anche se non ricordo bene tempi e successione degli eventi, entrambi morirono ancora giovani.
Quella piccola casa di pietra, con una cucina che di notte si riempiva di stuoie per dormire e una sola camera da letto, che forse era anche la stanza per accogliere gli ospiti, ti vedeva spesso affacciata alla finestra, a guardare gli altri bambini giocare e correre, poveri, malvestiti, spesso scalzi, ma spensierati. E non ammettesti mai di aver provato invidia, né per loro né, più avanti, per le tue sorelle che andavano a ballare in piazza mentre tu dovevi occuparti della casa e dei vecchi.
"Non ero fatta per quelle cose, non mi piaceva ballare, volevo solo stare sola" dicevi, ma era lampante che invece avevi desiderato tanto vivere qualcosa di speciale, essere libera, essere amata, anche se non l'avresti ammesso neanche con te stessa.
E quando sei cresciuta, convinta che il tuo mondo fosse completo così com'era, ecco che si fa avanti un pretendente, anzi, la sua famiglia, che allora si usava così. Volevano Beatrice in sposa per il loro figlio bello e aitante, per il loro figlio che quasi non ti conosceva e che passava le serate in piazza con le altre, più attraenti di te, più socievoli, più accomodanti.
Non ho mai capito perché insistettero per fare di voi una coppia, non c'era nessun vantaggio economico, da una parte e dall'altra, non c'era nessun incidente da sistemare, non c'era alcun motivo per il quale avreste dovuto sposarvi. Eppure, nonostante le tue rimostranze, ancora una volta qualcun altro decise per te; anche le tue sorelle più grandi, ancora nubili, si schierarono con i tuoi per spingerti a dire si.
Che poi cosa valeva la tua parola? Di sicuro la decisione era già presa, tu non avevi il diritto di opporti, con che coraggio rifiutare una proposta, con quale alterigia! E accantonate le deboli proteste passasti al pianto silenzioso, alla disperazione. Non avevi mai desiderato un uomo, non avevi mai provato l'abbozzo di un sentimento o di una vaga attrazione per l'altro sesso; ti credevo quando dicevi di non averne mai sentito il bisogno, di non aver mai capito quei giochi amorosi, quegli sguardi complici, quegli incontri furtivi. Non ti interessavano e basta. Non desideravi neppure diventare suora, alternativa all'epoca in voga, avevi fede ma il tuo sogno era solo stare tranquilla, stare in pace, a vivere di rimpianti e amarezza.
E non avevi mai desiderato un figlio (ecco che ancora una volta qualcosa ci accomunava...).
Il fidanzamento fu suggellato con un misero pranzo tra consuoceri e poi lui prese il largo come soldato. Era la seconda guerra mondiale, anche se in paese, l'unico posto in cui eri stata fino ad allora, neanche ci si accorgeva del conflitto in corso! Divise da giovani balilla a scuola e qualche frase fatta ma soldati ne avete visto ben pochi. Solo sfollati provenienti dalla città, unici testimoni della guerra in corso.
E mentre lui era via arrivò la notizia che si era ammalato. Ed ecco che ricominciasti a sperare, "forse così malato non me lo faranno sposare, forse sarò salva"; e lo dicesti ai tuoi, provasti timidamente a chiedere di poterti tirare indietro, di solito funzionava così in caso di malattia. E mentre lui era in ospedale forse neppure speravi che si riprendesse, non per egoismo ma solo per istinto di sopravvivenza! Ma non ti ascoltarono, lui tornò in paese, più o meno guarito (mai capito da cosa), e poco dopo eravate marito e moglie. So bene che la cosa non rese felice neanche lui, non eri tu il suo sogno, non so se ne avesse uno...
E poi i figli, uno dopo l'altro, almeno 2 persi nei primi mesi di vita, anche questo come era di norma in quei tempi. Un'infezione, la malnutrizione, la dissenteria e i bambini se ne andavano. Ma ne arrivava subito un altro e non c'era tempo per piangere le perdite.
E arrivò anche lui, mio padre, il tuo preferito mi dicevi. Claudio era introverso, bello, timido. E aveva un carattere difficile, soffriva della rigidità e della freddezza di tuo marito. Nonno era severo, altero, irascibile, con te come con i figli. E tu non eri capace di essere tenera e affettuosa come, sono certa, avresti voluto, tu non avevi conosciuto tenerezza e non potevi regalarla a quelle creature che tanto amavi. E loro te ne hanno fatto una colpa, di quello e di aver lasciato che lui decidesse sempre per tutti.  Nessuno di loro ricorda di aver ricevuto una carezza, di essersi sentito amato e protetto. Ti volevano bene, tanto, ma anche i loro ricordi sono diventati tristi e amareggiati come i tuoi.
Il tempo li ha resi persone più forti, li ha sparpagliati lontano dal paese e gli ha concesso una vita migliore, un lavoro, una famiglia. E tu, lo so, eri felice per loro, anche se avresti voluto ancora di più per i tuoi figli adorati.
Non so dire fino a che punto, col tempo, vi siete avvicinati; ti prendevi cura di noi nipoti, ci ospitavi sempre come fosse casa nostra, e loro si sono presi cura di te fino alla fine, quando sei diventata vecchia e malata. Ti hanno amato tanto e, sono certa anche di questo, non te l'hanno mai detto...o forse qualcuno, solo, in quella stanza in cui ti andavi spegnendo piano, incapace di parlare, te l'avrà sussurrato all'orecchio? Non lo so. So che l'ho fatto io, di nascosto, trovando un momento in mezzo a quel viavai di persone care e meno care che si avvicendavano davanti al tuo letto.
Mi manchi. So quanto mi volevi bene, mi azzardo persino a pensare di essere stata la tua preferita, perché avrei voluto fosse così. Scriverò ancora di te, lo so. Sei la mia nonna triste, la mia nonna buona con l'anima nera. Sei una parte di me e io ti somiglio un po', anche se, come mi hai sempre insegnato, mi sono fatta rispettare nella vita, lo faccio sempre!

Ansia e dintorni

Stamattina, tra le news di Tiscali, ho letto che Daria Bignardi sta pubblicando un libro con un titolo del tipo "Storia della mia ansia", che pare non sia esattamente autobiografico (visto che il protagonista è un musicista) ma che probabilmente lo è.
Non che la Bignardi mi interessi granché, l'ho seguita sporadicamente ne "Le invasioni barbariche" e ho letto quanto si dice di lei in qualità di direttore di RAI 3, niente di più.
Però il titolo del libro ha attirato la mia attenzione, subito, come sempre accade quando si scopre una comunanza di tratti problematici, come se la condivisione potesse consolare o, ancora meglio, suggerire soluzioni.
Non credo che leggerò quel libro, non ne ho mai letto sull'argomento. Ma l'argomento, certo, mi appartiene, nel senso che è parte integrante e invadente del mio vissuto, della mia persona.
L'ansia, quale compagna più scomoda e antipatica!? 
Certo, la malattia fisica, il dolore, la solitudine, forse quelle sono più scomode e antipatiche, ma al momento è lei a farla da padrone e perciò lei soltanto posso cercare di capire e controllare.
Ed ecco che ho usato la parola chiave, "controllare".
Il CONTROLLO è forse il mio problema più grande, inteso come esigenza di controllare tutto, di sentirmi sicura, di sapere al sicuro anche le persone che amo.
Io non so vivere l'oggi senza pensare al domani, io non so lasciarmi andare completamente (se non sotto l'effetto dell'alcol...e anche in quel caso non si può dire che la mia coscienza vada proprio in stand by), io non improvviso, quasi mai almeno.
A dirla così verrebbe da dire "E che palle, che noia! Che tristezza!", ma le cose sono un po' più complesse di così.
Credo che la mia ansia sia matura quasi quanto me, se non c'era alla nascita sicuramente mi ha raggiunto che ero ancora bambina, perché c'era già al momento in cui faccio risalire i miei primi ricordi. E parliamo dei miei 5 anni, del periodo immediatamente precedente all'inserimento scolastico.
Bambina non certo vivace, ero timida, riservata, spontanea solo in assenza di adulti e/o di sconosciuti. Anche nelle fotografie dell'epoca difficilmente mi si vede sorridente, sembro sempre impaurita, incerta. E non faccio fatica ad individuarne i motivi.
Ogni persona ha dei tratti caratteriali che sono innati, lo dicono gli studiosi della materia, ma poi ci sono tutti quegli aspetti che si formano, crescono, si definiscono sempre meglio, assolutamente condizionati da elementi dell'ambiente esterno, che vanno a fondersi in una personalità precisa e difficilmente modificabile nel tempo.
E quegli elementi so bene quali sono stati: un padre controllante, giovane, impreparato, convinto di sapere sempre quali comportamenti e situazioni potessero essere considerati adeguati per la sua prima figlia e la sua bella moglie. Entrambe dovevano essere carine e cordiali con tutti ma non troppo, sorridenti ma non troppo, curate e ben vestite ma non troppo, comunicative ma non troppo. Lo specchio del suo sogno di famigliola felice, quella che lui non aveva avuto. Una famigliola in cui ciascuno recitasse il suo ruolo, di mamma, moglie, figlia perfetta, mentre lui recitava malamente il suo di padre e marito attento e presente.
Lui non era presente, lui pensava al lavoro, al TG, al giornale da leggere; e pensava che quella vita fatta di formalità (come l'andare in chiesa la domenica e vestirsi dignitosamente) e priva di veri rapporti umani per entrambe le sue donne, dovesse bastare e farci sentire fortunate e soddisfatte.
Geloso ed eccessivamente protettivo nei confronti di moglie e figlia, ci soffocava, ci impediva ogni slancio affettivo, inibiva sul nascere ogni possibile amicizia, ci colpevolizzava se eravamo troppo espansive o socievoli. E non lo eravamo quasi mai.
A casa non si usava essere troppo affettuosi o espansivi, non ricordo neanche da parte di mamma particolari momenti di coccole e carezze; saranno sbiaditi i ricordi, del resto sono una smemorata, ma sono certa che tutto il contatto fisico, la tenerezza, la complicità che io e Marco viviamo con nostro figlio, in casa dei miei non ci sono mai stati.
Mio padre aveva certamente difficoltà ad esprimere i suoi sentimenti, di sicuro convinto che non rientrasse nel suo ruolo di uomo forte e di "capo famiglia" responsabile.
Lui non ha mai ricevuto una carezza dai suoi genitori, che lo amavano, lo so, ma non avevano tempo né capacità di esprimere il loro affetto.
Altri tempi. I loro e anche i nostri.
Mamma, che non lavorava (perché lui aveva preteso fosse così) era sempre in balia dei suoi umori e dei ricatti, del continuo sottolineare la sua dipendenza economica e sociale.
E ad ogni litigio volavano paroloni e spuntavano valigie riempite in fretta e furia per poi essere disfatte mezz'ora dopo fra scuse e pentimenti da una parte e dall'altra.
Per poi ricominciare tutto da capo.
Poi sono arrivati gli altri figli ma la situazione non è cambiata di molto.
Io ero sempre più taciturna e, nel profondo, sognavo che quelle valigie ci sarebbero davvero servite un giorno o l'altro, sognavo che lei trovasse il coraggio di andare via, che provasse la stessa rabbia che provavo io.
Ma non è mai successo.
Siamo sempre rimasti, che delusione, ogni volta!
Quelle scenate giovanili sono andate scemando pian piano, tra loro si è raggiunto un equilibrio e, man mano che noi crescevamo, una nuova visione della coppia, dei ruoli, della donna si è fatta strada fino a casa nostra.
Ci sarebbe da dire molto in proposito ma qui dirò soltanto che ora mia madre vive il suo ruolo di donna, madre e moglie molto più liberamente, con maggiore riconoscimento del suo impegno e del suo lavoro (che quello in casa di certo lo è) e con maggiore forza nel pretendere rispetto.
Credo si amassero e forse si amano ancora, quindi va bene così, sono rimasti insieme, forse non avrebbero saputo vivere diversamente.
In ogni caso nella mia infanzia il loro rapporto e il senso di precarietà che mi trasmetteva, hanno sicuramente plasmato le mie insicurezze, le mie ansie e soprattutto la mia voglia di riscatto.
E hanno fatto di me una che cercava vie di fuga in ogni occasione utile, una che ha imparato a mentire e a nascondersi per fare ciò che voleva, una che sapeva divertirsi, ridere, lasciarsi andare con amici e compagni (di scuola e di gioco) per poi tornare a fare la musona pensierosa e malinconica in casa.
Ho passato l'infanzia a sognare, a immaginare una vita diversa, ed ho continuato, sempre, in ogni momento, a scuola, per strada, sull'autobus, in bagno...sempre sogni ad occhi aperti, una storia infinita in cui la protagonista era sicuramente più scaltra e affascinante di me.
Non ho mai smesso di sognare, io ho bisogno di sognare, che si tratti di sogni più o meno realizzabili o di pure fantasie lontane anni luce dalla realtà, in cui posso essere mille diverse Laura, anzi, stessa Laura, mille vite, mille amori, mille lavori.
E insieme al sogno mi sono tenuta l'ansia, la stessa di quando tremavo all'idea di essere interrogata, a scuola o in qualunque situazione "sociale" che mi avrebbe vista costretta a parlare, a casa con mio padre, al quale non sapevo mai che dire senza sbagliare...
Tutto è cambiato, molte cose sono superate, ma l'ansia è sempre qui, con me, in me.
Come dice la mia terapeuta "la mia ansia è espressione del bisogno di controllare tutto", persone, vissuti, situazioni. Credo sia la mia risposta all'essermi sentita fortemente controllata in passato, in balia di qualcuno e degli eventi.
Ora voglio essere io a gestire e controllare, a programmare e realizzare  il mio sogno di vita.
E quando non funziona rischio di crollare.
Ma ancora sono in piedi, vado avanti, guardo avanti. Sono viva. Sono forte.
E sono ansiosa.
 
 
 

Tre giorni di congedo causa mestruazioni!?

"Tre giorni al mese di riposo durante il ciclo mestruale. È quanto prevede la proposta di legge presentata alla Camera lo scorso 27 aprile e attualmente all'esame della Commissione lavoro che mira all'istituzione del "congedo per le donne che soffrono di dismenorrea". La proposta, firmata dalle deputate Pd Romina Mura, Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato, tende a introdurre un congedo senza riduzione di stipendio...."
Questa incredibile notizia apparsa nei giorni scorsi sulla stampa, per quanto ampiamente preannunciata, mi ha lasciato ancora una volta l'amaro in bocca per l'incredibile vocazione all'autolesionismo di noi donne!
La prima volta che ho sentito parlare della proposta, pubblicizzata dalla Mura (mia conterranea) come iniziativa all'avanguardia per la tutela della donna, neppure l'ho presa sul serio. Ho pensato "ma chi vuoi che se la fili una simile cazzata? Ma come si può essere donne e ridursi a tanto? Ma quante donne si incazzeranno!". E invece NO.
Nessuna sollevazione indignata, nessuno scatto d'orgoglio. Silenzio.
Solo parlando con colleghi e colleghe ho trovato chi, come me, riteneva superflua la proposta normativa, visto che in Italia, se stai male, basta un certificato medico e te ne stati a casa a riposo, anche senza sbandierare ai quattro venti che quelli sono i giorni in cui il ciclo ti mette KO. Non è una questione di pudore, è che proprio non si sentiva il bisogno di una trovata simile (che spero non diventi mai legge!), perché è chiaro che si trasformerà in un boomerang che si abbatterà su noi donne, su tutte le donne, anche quelle che credono fermamente nella parità tra uomo e donna!
E' vero che la dismenorrea può essere invalidante, lo dice una che ha sofferto per anni, fin dai tempi della scuola, con assenze inevitabili o repentini riaccompagnamenti a casa perché  il dolore non consentiva al cervello di connettere! E certamente ci sono donne che soffrono di disturbi ancora più intensi e che hanno tutto il diritto di stare a casa quando questi sono insopportabili. Ma quel diritto c'è già. Se stai male sei malato, se sei malato puoi stare a casa presentando un semplice certificato medico.
Ma questo vale per le donne come per gli uomini. E i datori di lavoro per i quali anche mettersi in malattia può essere interpretato come assenteismo e mal digerito, non cambieranno certo atteggiamento se quell'assenza sarà chiamata in un altro modo e quel diritto sarà normato dall'ennesima legge. Sarà tutto uguale. Anzi, sarà peggio.
In tempi nei quali ci lamentiamo del sessismo dilagante, degli atteggiamenti, degli spot, delle immagini e degli stereotipi che dipingono le donne come semplici corpi da guardare, usare, violare, senza cervello e con innata vocazione per il lavoro domestico, ecco che siamo noi donne ad aggiungere un mattoncino a quel muro già solido di pregiudizio.
Ma non bastano le battutine e le allusioni che già si fanno abitualmente sul malfunzionamento della nostra psiche nei giorni in cui quel flusso ci costringe ad adottare mille accorgimenti per rendere la cosa tollerabile e compatibile con le nostre mille attività? Non ci sentiamo abbastanza offese dai riferimenti al ciclo e agli ormoni che gli uomini rispolverano ogni volta che non siamo gentili o disponibili come vorrebbero? Ogni volta che sbottiamo, a casa o al lavoro, ogni volta che siamo stanche, ogni volta che pretendiamo attenzione e rispetto o cerchiamo di far valere le nostre ragioni? Per me ce n'è fin troppo! Non sento proprio il bisogno di ricordare a tutti che, probabilmente, in alcuni giorni del mese potrei non essere al top! Magari sarà così, o magari no.
Non sono i congedi dedicati la soluzione ma piuttosto la fornitura di ausili medici e farmacologici che riducano i sintomi della dismenorrea. E magari la maggiore diffusione di soluzioni (del resto già esistenti) che consentano persino di eliminare la cadenza mensile delle mestruazioni. Siamo animali e come tali ci trasciniamo dietro questo retaggio di sofferenza, un po' come succede per il parto. Ma chi dice che debba essere così per forza, che non si possa scegliere di non soffrire, che non ci si possa sentire donne anche senza questi inutili piccoli martirii.
Io non ho bisogno del ciclo per sentirmi donna, come non avevo bisogno di partorire con dolore o allattare. Ognuno fa quel che sente e che desidera ma credo che la riduzione del dolore, in ogni campo, sia un serio obiettivo da perseguire. E in Italia non lo si fa mai abbastanza, non seriamente.
Io sono una donna. Assolutamente si. Ma sul lavoro non sono diversa da un uomo, non ho bisogno di cose diverse, non so fare di meno o di più, non sono più o meno capace. Noi siamo uguali e abbiamo gli stessi diritti.
Non ho una sensibilità più spiccata di un uomo, non piango più di un uomo, non sono meno competitiva in quanto donna (al massimo lo sono in quanto Laura, che proprio della competizione fa volentieri a meno), soprattutto non sono meno brava di un uomo e lo sono di più e spesso, non perché donna ma perché, come dico sempre, il lavoro lo rispetto e ci metto impegno e testa, almeno quando è possibile.
E' una vita che mi rifiuto di festeggiare l'8 marzo, un po' perché non amo i ritrovi di sole donne, molto di più perché penso che non siamo una specie in via di estinzione o un soggetto debole da celebrare perché ci si ricordi che esiste e che ha delle specificità! 
Ancora mi sento umiliata all'idea delle quote rosa, che siano istituite in politica, sul lavoro o in qualunque altro ambito. La parità tra uomo donna, penso io, non deve necessariamente passare attraverso la parità numerica. Non ha senso dare priorità per quote magari sacrificando persone più valide, al di là del loro sesso.
Vivo in una piccola città e provengo da un piccolo paese. Non siamo certo all'avanguardia in materia di parità, eppure nemmeno qui, in questo ambiente a volte chiuso e pieno di pregiudizi, sono convinta che una donna debba fare di più per farsi strada, debba dimostrare di valere di più rispetto a un uomo per essere considerata in una selezione di lavoro, debba accontentarsi di essere pagata meno rispetto a un uomo e così via. Non è così, non nella realtà che conosco, né al lavoro né fuori.
A meno che quella donna non viva se stessa in quel modo, incarnando in pieno lo stereotipo.
Se passi il tempo a lamentarti del fatto che gli uomini sono trattati meglio, che solo perché sei donna non sei stata votata o selezionata, se gridi al complotto ogni volta che le cose non vanno come vorresti, forse il problema è tuo, forse ti proponi nel modo sbagliato.
Chi parte con l'idea d'essere per natura discriminato, probabilmente sarà discriminato, o almeno ne avrà la percezione. 
La condizione della donna, nel mondo, è qualcosa che varia e non poco. Ci sono paesi in cui la nostra dignità di persone viene lesa ogni giorno, ci sono realtà nelle quali non contiamo, non possiamo esprimerci, non possiamo essere liberamente ciò che vogliamo.
E anche nel nostro paese (intendendo l'Italia in generale) quasi quotidianamente si legge di violenze, aggressioni, femminicidi, frutto di una cultura maschilista che stenta a farsi una ragione del fatto che certe differenze tra i sessi non ci sono più, non hanno più ragione d'essere. Ma quella cultura maschilista sta anche dentro le nostre teste, la alimentiamo ogni giorno, a volte fingendo di combatterla e contestarla. Dobbiamo pretendere il rispetto come persone, dobbiamo far valere il nostro diritto all'autodeterminazione, dobbiamo essere semplicemente ciò che affermiamo di essere: esseri umani, prima ancora che donne.
E' stupido dare agli altri la responsabilità per le cose che non facciamo, per i posti in cui non andiamo, per le amicizie che non frequentiamo, per l'angolo femminile in cui siamo relegate in un tavolo affollato. Io non ci sto. Io non faccio quello che si aspettano gli altri, maschi o femmine che siano, sto con chi mi pare, mi siedo dove mi pare, la penso come mi pare e mi sento assolutamente a posto con me stessa e con chi mi circonda.
Non accetto di essere messa all'angolo, allontano le persone che davvero pensano che essere donna significhi dover stare al proprio posto (quale poi?). Non amo quegli uomini e quelle donne; anzi, non sopporto soprattutto quelle donne! Quelle che cercano di insegnarti e spiegarti perché le cose sono così e devono stare così, immutabili, quelle che ti raccontano come deve pensare, agire, vivere e sacrificarsi una vera donna! Quelle che poi criticano e fingono di non tollerare quegli uomini che loro stesse educano e/o sposano e/o amano.
Siamo diversi fisicamente, forse più deboli (cosa poi non vera universalmente), ma per me le differenze si fermano qui. E qui mi fermo, l'argomento mi ha stancato...
Di sicuro quelle parlamentari si sono giocate il mio voto!
 

Cambiare lavoro, forse mai

Diventa sempre più dura riuscire a stare chiusa per ore e ore dentro il mio ufficio, con la testa un po' china di fronte a un PC e alle scartoffie che affollano la scrivania. C'è tanto da fare mentre la mia mente tenta di allontanarsi e si rifugia disperata in un mondo parallelo, nel quale il lavoro possa essere una passione, l'espressione di una creatività che, per quanto non troppo sviluppata, comunque esiste.
Non sono certa di cosa mi piacerebbe fare, certamente scrivere, ma non sono abbastanza brava perché qualcuno mi paghi per questo...e allora cosa? Magari gestire un'attività tutta mia, darmi al commercio, in uno spazio da personalizzare, organizzare, curare quotidianamente per renderlo accogliente e interessante. Un negozio di scarpe, si, mi piacerebbe gestire un negozio di scarpe!
So che qualcuno troverebbe la cosa davvero poco creativa, un controsenso rispetto a quanto detto prima, ma io no. Scegliere le calzature da presentare, creare una selezione di articoli interessanti e lavorarci intorno...sarebbe stimolante. E certamente sarebbe uno spazio ben diverso da quelli che vedo in giro e che non mi soddisfano mai.
Adoro le scarpe, eppure difficilmente ne trovo che mi facciano impazzire, che, al di là del costo magari proibitivo, mi restino impresse nella mente almeno sotto forma di desiderio. Forse dovrei proprio disegnarle da me queste scarpe...ma allora il sogno diventa utopia, tanto vale non pensarci neppure!
E poi la verità è che non troverei mai, se non supportata da solide basi economiche, al momento assenti, il coraggio di lasciare questo posto di lavoro.
Sarei pazza a rinunciare a un contratto a tempo indeterminato e nel settore pubblico per di più, questo direbbe chiunque! E in effetti non sono certo una persona tagliata per il rischio e l'avventura.
Ho sempre cercato certezze nella vita, in tutti i campi, ed è forse anche per questo che sono qui. Ciò non toglie che mi sia impegnata fino in fondo per ottenere quello che ho, che me lo sono guadagnato.
E infondo a me piace il mio lavoro, almeno è così per la maggior parte del tempo.
Sono un amministrativo, sono un impiegato, sono una che traffica con lettere formali, atti, con un po' di numeri.
Sono una che lo fa seriamente, riconoscendo dignità al lavoro amministrativo, nella convinzione che senza di esso, senza regole, tempi, applicazione delle norme, esisterebbe solo il caos.
Non sono così ordinata e precisa in tutti gli aspetti della mia vita ma sul lavoro ci provo, commetto errori, certo, rimedio come posso, comunque rispetto quello che faccio. Perché rispetto l'istituzione per cui lavoro. Rispetto tutte le istituzioni che ci rappresentano.
Non ho più l'età per l'anarchia e forse non l'ho neppure mai presa sul serio. Sono sempre stata una di quelle convinte che "essere di sinistra" significhi anche riconoscimento dello Stato come parte di noi, come nostra prima proprietà da proteggere, come prima casa da curare, come fonte di sostegno e protezione in caso di bisogno, come ridistributore di risorse e come garanzia dei nostri diritti.
La parola burocrazia è usata solo in senso dispregiativo ormai, ma la verità è che senza non potrebbe funzionare nulla.
E in effetti molte cose non funzionano, ma ci sarebbe tanto da dire sui motivi, che il più delle volte nulla hanno a che fare con quegli individui che coprono di vergogna tutto il comparto, quelli di cui si parla tanto nei TG, con tanto di filmati osceni su 10 cartellini  timbrati da uno solo e scene di corruttela dilagante e spiazzante.
Quanto vorrei vedere punite quelle persone, ma soprattutto allontanate da una pubblica amministrazione che davvero non merita di essere svilita e denigrata in questo modo.
Io faccio il mio lavoro, lo faccio meglio che posso, lo faccio perché quasi sempre credo nella sua utilità. Può darsi che il motivo principale che mi ha spinto a cercare lavoro nel settore pubblico sia stato il bisogno di stabilità, l'aspirazione alla continuità e alla possibilità di programmare la mia vita a medio-lungo termine, che non so farne a meno. Ma ora posso dire che questo lavoro lo rispetto e che ne colgo l'importanza, anche se sono solo un piccolo ingranaggio nel sistema.
Che brutte parole, direbbe qualcuno! Ma alla fine il sistema siamo noi, il sistema deve funzionare, il sistema ci deve dare le risposte di cui necessitiamo. Il sistema va riformato, adattato, snellito, reso più giusto e socialmente equo, ma di certo non credo vada smantellato e buttato alle ortiche tutto d'un pezzo.
E che palle, ma di cosa sto parlando? Alla fine sembra un inno al sistema... Eppure ho cominciato dicendo che vorrei tanto non dover tornare giorno dopo giorno in quell'ufficio...ed è davvero così.
Ma credo che lì dentro ci diventerò vecchia, per fortuna in piacevole compagnia...
Sono stanca, non basta andare al lavoro, ora parlo pure di lavoro!
Stop, svuota la mente Laura! Almeno finché Luca te lo consentirà.
Ed eccoci di nuovo a parlare di lavoro...l'altro lavoro...

Giocare con mio figlio, per favore, no.

Ogni donna sogna di avere dei figli, tanti bambini, di riempire le sue giornate di strilli, risate, giochi e abbigliamento in miniatura.
Che grande balla!
Forse è vero che, in molte donne, l'istinto materno è marcato e porta a desiderare la cucciolata da accudire o, se non fosse possibile, a sfogare sull'uomo di turno quell'istinto di cura e protezione che fa sentire realizzate in una sorta di ruolo materno fittizio. Forse tante donne vivono nel sogno della famigliola stile Mulino Bianco e pensano che solo sentendosi chiamare "mamma" saranno pienamente felici e realizzate. Forse...
Quanto è istinto e quanto convenzione? Quanto ci condizionano l'educazione, la letteratura, la TV, il bisogno di rispondere ad aspettative che sono di altri, che siano genitori, parenti, amiche, insegnanti e, secondo me più di rado, compagni o amici maschi?
Forse sono io quella strana, forse la genetica si è confusa ed ha scordato di installare nel mio DNA quell'istinto materno il cui richiamo non può essere ignorato! Oppure la verità è che non esiste un istinto materno, forse l'istinto di riproduzione...ma ho dubbi anche su quello.
Io comunque quell'istinto non ce l'ho! Io non ho mai sognato la famigliola da spot, non ho mai sentito la necessità di andare ad accarezzare e fare smorfiette e versi ridicoli  a bambini di conoscenti e, cosa, che ancora trovo allucinante, di perfetti estranei, magari per strada o al supermercato! Magari quella carezza, coi figli di amici e parenti, c'è pure stata, che altrimenti sarei sembrata un'aliena! Ma sinceramente non ne ho mai avvertito il bisogno o il desiderio sincero...molto più facile che avessi voglia di accarezzare un cane o un animaletto qualunque!
I bambini io li rispetto, sento di doverli proteggere, li vedo come piccole persone con i loro tratti caratteriali, già capaci di ispirare o meno simpatia, comunque sempre meritevoli di un sorriso.
Io credo che i bambini siano una nostra diretta responsabilità, che gli dobbiamo garantire sicurezza, amore e accettazione, sempre.
Io ho scelto e deciso di avere un figlio, io ho programmato l'avere un figlio.
Ho avuto la fortuna, che un tempo vivevo come una sfortuna, di nascere e crescere in una famiglia numerosa; una sorella e due fratelli che da bambina tolleravo e che adesso invece amo avere vicino. Sono cresciuta con una sfilza di cugini che, per quanto non sempre vicini, hanno riempito di gioia tutte le giornate di festa e di ritrovo. Io sono cresciuta con la certezza che la famiglia viene prima di tutto, che ne avrei avuto una tutta mia da annettere a quella già esistente. Io lo sapevo, soltanto non sapevo quando o non avevo voglia di stabilirlo.
Io ho vissuto la mia giovinezza lontana mille miglia da quel tipo di pensiero, interessata a mille cose, agli amici e all'amore ma con l'idea di un bel futuro fatto di casa, lavoro e famiglia ancora ben lontano, tutto da immaginare. 
Sono fuggita senza troppe spiegazioni ogni volta che ho fiutato desiderio precoce di famigliola felice in chi mi stava accanto, in chi doveva rappresentare l'avventura, la passione, la scoperta e poi invece assumeva le sembianze di una gabbietta scomoda e mai invitante.
Ancora oggi non riesco a capire questi giovani ventenni impazienti di cimentarsi nel ruolo del bravo genitore/marito/compagno (o equivalente femminile). Non ci arrivo. Ma a quanto stanno rinunciando? Ma sanno cosa significa giocare e divertirsi per sé, avventurarsi in nottate infinite, vivere gli amici fino a fondersi con loro in risate o pianto? Non sono tutti così, lo so, ma ai miei occhi sono troppi quelli che scelgono la via breve.
Resto convinta che la maturità sia importante in certe cose, che sapere che vivere con leggerezza le cose della vita le rendae più tollerabili o piacevoli non giustifica il fatto che si rinunci alla propria giovinezza e che poi, probabilmente, si viva di rimpianti da far pagare a qualcun altro.
Comunque io non ci pensavo proprio, se non in prospettiva, come sogno abbozzato e azzardato. Io la mia vita l'ho vissuta come ho potuto, come sono riuscita, che a ripensarci ci sarebbe stato molto altro da fare e da provare, con un pizzico di coraggio e intraprendenza in più che non avevo...
E quando io e Marco abbiamo cominciato a parlare di famiglia, per quanto follemente innamorata, ho chiesto tempo, mi sono assicurata che ci sarebbe stato tanto tempo, che non era quello il fine primario della nostra relazione. Ho avuto le rassicurazioni che cercavo e siamo andati avanti.
Anche vivere insieme e sposarsi per me non era un passaggio verso quel tipo di organizzazione, era solo la conferma e il rafforzamento della nostra relazione! E ci siamo regalati tanti anni di libertà, passione, divertimento smodato a volte... compatibilmente con la nostra vita lavorativa. Poi è diventato chiaro che, a parte la questione, purtroppo da considerare, dell'orologio biologico e del suo tichettare, per lui il desiderio di essere padre si faceva pressante, viveva nel timore di doverci rinunciare, nel sospetto che io magari stessi cambiando idea e temporeggiando per fare in modo che un figlio non arrivasse più...
Era crisi ormai. E allora ho dovuto guardare in faccia la realtà. Volevo un figlio, magari non allora, ma lo volevo. Ma se avessimo aspettato oltre forse non ci sarebbe mai stato. E' strano come ci si possa sentire giovani a dispetto dell'età e ancora desiderosi di libertà e immaturità. Ma l'età c'era e comunque non avrei potuto rinunciare a lui (e non ho ancora la certezza che, senza un figlio, sarebbe rimasto accanto a me pur amandomi) né negargli la gioia più grande e l'unica cosa che mi abbia mai chiesto! Abbiamo deciso e abbiamo fatto un figlio, alla soglia dei quaranta. Luca è arrivato e ha sconvolto le nostre vite, in tutti i sensi!
Non tornerei mai indietro ma, certo, è davvero difficile andare avanti. E Luca è un bambino bellissimo, affettuoso, estroso e vivace, troppo vivace forse...o solo troppo testardo! Comunque lo amiamo e adoriamo, ci tiene in pugno! Per quanto maturi non siamo forse i genitori più sicuri e adeguati perché certi suoi atteggiamenti che ci fanno impazzire sono senz'altro in parte frutto dei nostri.
Ora ha quasi 5 anni e ancora pretende di giocare sempre con noi, di avere la nostra continua e assoluta attenzione, di venire sempre e comunque prima di tutto e tutti. E allora ecco che la mia insofferenza viene fuori.
Se non amavo giocare coi bambini degli altri, non è cambiato molto ora che ne ho uno mio. Non amo giocare, non amo recitare, non amo i parchi, le feste per bambini, i compleanni, i ritrovi tra genitori, le riunioni dei piccoli vandali in casa mia! E faccio tutto ciò che ho appena citato, fatta eccezione per i rapporti con gli altri genitori (vedi "genitori dei compagnetti") che proprio mi danno l'orticaria e per i quali la delega va a Marco integralmente.
Ma a Luca non nego niente, mi pare, anche se sempre più cerco di chiedergli spazio, quasi lo imploro perché mi lasci respirare, che poi vorrebbe dire leggere un libro o magari solo mettere in ordine le mie cose in pace, depilarmi, fare un bagno...
Marco gioca con lui, è un bambino come lui quando si tratta di rotolarsi sul divano o usare la costruzioni; lo porta al parco, alle feste, ovunque ci sia l'opportunità di farlo divertire. Ma anche lui è stanco e vedere me così stremata e stressata non aiuta.
Non so fino a che punto Luca si accorga di quanto giocare con lui mi costi, forse abbastanza, forse per questo pretende sempre di più da me, forse per questo sente l'esigenza di assicurarsi la mia attenzione in ogni momento. Ma certo ricorderà che giocavo con lui quando sarà grande, perché lo faccio, anche se non vorrei...
E magari gli racconterò tutto questo un giorno, gli spiegherò.  Perché lo amo, infinitamente, anche se non amo giocare con lui. E gli spiegherò anche che le mamme sono donne come tutte le altre, che non tutte le donne vogliono essere mamme e che anche quelle che lo vogliono non necessariamente devono desiderare di passare il tempo al parco col proprio figlio! L'amore è un'altra cosa. E' anche giocare con lui senza averne voglia e senza trarne piacere, è anche sapere che se sono una mamma poco entusiasta ora, sarò una mamma presente e attenta e accogliente poi, quando ne avrà più bisogno.
E oggi speriamo non mi chieda di giocare, meglio leggere un libro...

Voglia di mare

Una bella giornata, di quelle che sarebbe bello vivere in riva al mare e non in questo ufficio che, per quanto luminoso, è comunque una piccola gabbia.
 E qui il mare c'è, perché ho la fortuna di vivere in una città di mare, in un'isola, dalla bellezza accecante, soprattutto in primavera.
Si, vorrei proprio mollare tutto e uscire, sdraiarmi sulla sabbia e sentire solo il rumore delle onde, ripetitivo e nostalgico. Mi fa sempre quell'effetto il mare, mi fa ricordare cose vissute e spesso regala quel nodo allo stomaco che solo i primi amori e i primi desideri sanno suscitare. Chissà perché poi, ma il desiderio si fa più vivo, anche se astratto, quando sto stesa sulla sabbia con gli occhi chiusi e la malinconia nel cuore.
Non è tristezza, a tratti è rimpianto, ma era così anche quando ero giovanissima, e ora che di anni ne ho 43 non è cambiato nulla nel mio stomaco, stesse vibrazioni, stesse voglie, stesso indefinito desiderio di carezze e contatto tra corpi.
Voglie che muoiono lì, sulla spiaggia, che se ne vanno con la risacca, lasciando solo il torpore. Perché appena apro gli occhi c'è il presente ad attendermi, quello da vivere, da consumare in attesa di altre emozioni, di altre occasioni...
E a fianco il mio uomo lontano dai miei pensieri, lontano da sensazioni che non condivido, che ho paura di condividere. Forse perché parlarne spezzerebbe la magia, o forse perché quel desiderio astratto un tempo si catalizzava su di lui, il mio sogno, il mio amore negato, la mia sfida.
Lui ora è il mio amore vissuto, presente, necessario. Lui è tutto per me. Ma il desiderio è cosa diversa, il desiderio richiede privazione e lontananza, fame di qualcosa che non ti appartiene.
E lui mi appartiene.
Ci sarà spazio per un desiderio nuovo tra noi, forse, quando smetterò di vederlo come il mio compagno del quotidiano e come il padre di mio figlio.
Perché se guardo quegli occhi profondi e quel corpo forte ritrovo in un attimo le sensazioni disperate che si accendevano in me...poi lui sorride e io ricordo che è già mio, che c'è, c'è sempre. Rassicurante, presente, caldo e protettivo. E quel desiderio selvaggio sfuma, si trasforma, mi manca...
Forse dovremmo perderci per poi ritrovare quella voglia disperata, ma tremo al solo pensiero...e poi è solo mia questa smania di incertezza e proibito, lui non ha bisogno di instabilità per accendersi, lui vuole il sesso così com'è, per quel che è.
Già, chissà che cerco io invece, quale brivido, quale piacere ancora sconosciuto...
Sono una donna, sarà questo? Sarà che gli uomini sono più semplici e pratici?
No, solo stereotipi inutili.
Sono io, sono un'eterna sognatrice, a tratti cinica ma sempre fra le nuvole. E' che mi piace davvero troppo stare lì tra le nuvole...anche da sola.



Noia, noia, ma che sarà mai...


Proprio non ho mai capito tutta quella gente a lamentarsi per il NIENTE da fare, per il NIENTE in corso, per la calma piatta...
Non esiste il niente in corso, qualcosa si starà pur sempre facendo, fosse pure dormire!
E magari fosse dormire!
Quanto vorrei davvero dormire, niente sveglia, nessuno spiraglio di luce alla finestra, nessun telefono, nessun campanello, nessun impegno a richiedere il risveglio.
Dormire, sognare, dormire, rigirarsi nel letto, pensare, dormire, fino a risvegliarsi intorpiditi e finalmente desiderosi del giorno (o della notte, che poi dipende...) e del fare o non fare. Una non stop di riposo che rasenti la noia ma che noia non sarà mai.
Ho amato e amo troppo per potermi annoiare, persone, cose, attività e inattività, troppe cose interessanti da fare o da pensare per potermi buttare giù fino a pensare di essere davvero annoiata.
Chi si annoia non vive davvero, credo. Se solo potessi sdraiarmi sul divano, un bel libro tra le mani, il silenzio, e poi perdermi fino a scordare che mi trovo nella mia casa comoda e calda. Magari anche rovinando il tutto con la TV accesa e una raffica di puntate delle mie serie preferite, con l'attenzione divisa in due, magari anche in tre, ma con quella soddisfazione che nasce dall'avere la certezza di fare quel che si vuole in quel momento, qualcosa di apparentemente inutile, sterile, ma che regala il piacere pigro del non dover fare, che è poi la scelta del non fare.
E questa sensazione dolcissima qualcuno la chiama NOIA.
Mai, mai sarà noioso stare con me e con la mia mente e con la voglia di viaggiare, che anche se non sono viaggi reali arricchiscono e regalano piacere allo stesso modo. Ci sarà tempo per viaggiare nel mondo, ora voglio viaggiare in me e godermi il mio rifugio. Vorrei...
Perché quella che casa che era un nido tranquillo o un ritrovo libero e chiassoso, ora è territorio occupato, campo da gioco per un bambino estremamente vivace e un padre che oscilla tra l'essere il suo compagno di follie o il mio compagno di stanchezza.
Per qualcuno saranno pensieri abominevoli ma è davvero dura vedere la propria vita cambiare così, entrare quasi in stallo, riempirsi di amore, ansie, infinito stress, come accade, credo, in tutte le famiglie con l'arrivo del tanto desiderato figlio.
Ho sempre pensato che fosse bello crescere, andare avanti nella vita, senza paura di invecchiare, vivere con curiosità ogni fase e, per fortuna, con soddisfazione.
Vale la pena soffrire, stancarsi, arrabbiarsi, amare, giocare, vale sempre la pena per una vita che regala mille piaceri. Ma, per quanto mi ci fossi preparata, per quanto abbia in effetti rinviato quel momento sperando di raggiungere la saturazione della mia voglia di essere solo me e di abbuffarmi della mia libertà, quando lui è arrivato ho capito subito che era comunque troppo presto.
Forse non è mai il momento giusto per diventare genitori e non potersi sentire più solo figli, ancora ragazzi, ancora a credito di carezze e coccole. Forse in qualunque momento diventare genitori significa rinunciare a qualcosa di importante, per qualcosa di altrettanto importante, certo, ma che ha un prezzo enorme!
Sono passati quasi 5 anni da allora e ancora aspetto di ritrovare il mio spazio, stupidamente, perché il nido non è più solo mio, il nido è stretto, a tratti soffocante, così tanto che mi viene da urlare. Ma poi non urlo, non sta bene, potrei sembrare più pazza di quel che sono, potrei allarmare i vicini, potrei spaventare il mio bambino e persino il mio compagno paziente. Bè, in realtà un po' urlo ma quello che avrei voglia di buttar fuori è un urlo disperato e forte, così forte da far tremare i muri, da togliermi il respiro, da farmi piangere! Sarebbe un BASTA infinito, una richiesta di aiuto, un ribadire che ci sono ancora IO, ancora IO prima di tutto!
Ma è così? Io prima di tutto?
Credo di no, so che non è più così, io ho scelto che non fosse così. Quando ami un uomo pensi davvero di aver messo lui sopra ogni cosa, di avergli ceduto il primo posto; che bugia, amando lui amavo anche me, amando lui davo spazio a me, amando lui ero ME. Lui non mi ha mai rubato né aria, né spazio, né la pura sensazione di essere libera. Lui è sempre stato la mia libertà e la mia solidità.
Un figlio è qualcosa di completamente nuovo e inimmaginabile, un figlio ti prende tutto, ti occupa fino all'ultima cellula, ti riempie e, come sta succedendo a me, ti fa traboccare. Un figlio è una persona nuova alla quale dai e darai tutto, alla quale non potrai chiedere mai ma sentirai sempre di voler dare.
Il fatto di volere che sia così non rende però la cosa meno pesante e pressante. Non rende la cosa meno dolorosa e soffocante. I suoi sorrisi, contrariamente a quanto qualche genitore racconta, non possono ripagare di tutto, non possono farmi smettere di desiderare di essere ME e solo ME, di vivere per ME.
Non si torna indietro e neanche vorrei, ma sarebbe ipocrita dire che non rimpiango la mia vita, la nostra vita in due, perché invece mi manca...e tanto per tornare in tema, mi manca la NOIA, quella che per me non è mai stata noia, che era solo piacere di vivere, di esistere, di mangiare, bere, dormire, fare l'amore, leggere, viaggiare, bere e bere ancora fino ad ubriacarsi!
Non esiste la noia, voglio la NOIA! Posso avere mio figlio e anche la noia?
Ed oggi nasce La fuga di Laura...la ricerca di uno spazio tutto mio, di una valvola di sfogo, di una libertà e di una leggerezza che da tempo non trovo ma desidero...E' solo il tentativo di dare a me stessa una possibilità, uno spazio per pensare, riflettere, cazzeggiare, per poi tornare alla mia vita un po' più leggera, in attesa di ritrovare l'entusiasmo che ho perso, in attesa di ricollegare il filo tra desiderio e realtà...
Io sono Laura, io sono quella che si sente eccitata all'idea di scrivere ancora non so bene cosa, non so a chi e come, ma so il perché: voglio uno spazietto tutto mio, voglio essere Laura e basta. Poi so già che scriverò di loro, ma forse non lo sapranno, e allora sarà come muoversi in un mondo segreto, che importa se sarò sola? Sarà bello, sarà mio.

Neuroni impazziti ai tempi del corona virus

Che dire, sto per perdere la bussola, come tutti. Convivenza continua, incessante e forzata con marito e figlio, mentre la nostalgia di un ...